Nino Benvenuti: combattere, nella vita!


Gio 28 Mag 2015 | di Giuseppe Stabile | Zona Stabile




“Il pugile è un bambino forte che pensa di avere il mondo sempre in pugno”. Nino Benvenuti è rimasto forte, bello, disponibile e sempre positivo, proprio come un bambino. Sul ring ha fatto sognare l’Italia del boom economico, ma continua a testimoniare che, tra vittorie e sconfitte, dobbiamo sempre dare precedenza all’anima.
«Tutti abbiamo l’anima, ma ognuno deve ritrovarla e metterla al primo posto. È necessario dare precedenza a se stessi, al cuore, al respiro, alle idee e all’immaginazione; altrimenti siamo sopraffatti dagli altri».

Come riuscire a tutelare la propria anima?
«L’anima è tua e devi difenderla stando lontano dai compromessi, altrimenti ti annulli. È vitale combattere per difendere la tua identità: sempre aperto al confronto senza mai scendere a patti con gli altri».

Hai continuato a combattere anche fuori dal ring?
«Quanti duelli ho combattuto quotidianamente! Molto più numerosi e difficili di quelli sul ring! È faticoso, ma bellissimo rimanere se stessi e saper dire di no, a qualsiasi costo. Questa capacità di lottare è per me naturale, perché i miei genitori mi hanno insegnato a essere sempre me stesso. Loro sono i primi che hanno messo in pratica questi insegnamenti nella loro esistenza».

Sei stato profugo negli anni terribili delle Foibe. Che ricordi conservi?
«Vivevamo in una terra bellissima, ma martoriata dalla violenza, quell’Istria da sempre italiana che fu invasa dalla Jugoslavia. Con genitori e fratelli fummo costretti a scappare a Trieste: fu una grande sofferenza, ma grazie a Dio nessuno dei miei familiari fu ucciso, anche se mia madre poco dopo morì per il grande dolore. Non ho mai covato odio verso i responsabili e la boxe mi aiutò a riscattarmi».



Come nacque la tua passione per il pugilato?
«Mio papà era un appassionato e ho sempre avuto il pugilato nel sangue: da bambino mi ero costruito un piccolo ring nella cantina della nostra villetta, con un sacco pieno di granturco che prendevo a pugni. A tredici anni aprirono una palestra vicino casa e mi iscrissi subito! Facevo il liceo e in famiglia sognavano una mia laurea; ma avevo una grande forza di volontà che mi permetteva di rinunciare alle cose buone, belle, comode e piacevoli. Nonostante i loro sogni, i miei hanno compreso e rispettato la mia passione per lo sport e mi hanno sostenuto. Sono dispiaciuto di non essermi laureato, ma credo ne sia valsa la pena».

E a vent’anni eri già a Roma a vincere le Olimpiadi del 1960! Cosa ricordi di quell’avventura?
«Fu un’esperienza molto difficile, ma provai un’emozione fortissima! Tra i tanti atleti, nel villaggio olimpico c’era anche Cassius Clay: lui risaltava nettamente su tutti, per come era e per ciò che faceva e diceva. Noi eravamo tutti tesi e nervosi, lui invece rilassato, sicuro e tranquillo. Abbiamo familiarizzato, forse perché ognuno di noi vedeva nell’altro qualcosa che gli apparteneva. L’ho sempre ammirato, non solo come grande campione, ma soprattutto dal punto di vista umano. Ci siamo incontrati anche in America molte altre volte: naturalmente per cogliere l’umanità dell’altro bisogna averne una propria. Ancora oggi lo stimo moltissimo e so che tutto quello che fa ha un senso profondo: è sempre indipendente e libero, non si lascia mai intimorire dagli altri».

Come proseguì la tua carriera?
«Dopo la vittoria olimpica passai al pugilato professionistico, ottenendo molte vittorie. Ma volevo diventare un campione vero e nel 1967 sbarcai a New York, dove lo stesso anno conquistai il titolo mondiale dei Pesi Medi contro Emile Griffith, un campione che è diventato un vero amico. Quella vittoria fu un evento eccezionale per un pugile europeo ed ebbe un’eco incredibile anche qui in Italia. Però tutto finì: nel 1971, dopo due sconfitte con il grande Carlos Monzon, mi sono ritirato dalla boxe. Avevo molta stima di me stesso, ma avevo conservato l’umiltà e non mi ritenevo imbattibile. Di fronte ad un pugile giovane e così forte, capii che era arrivato il momento di smettere, anche se continuavano ad arrivarmi ricche offerte per organizzare altri incontri».

Come è cambiata la tua esistenza fuori dal ring?
«Iniziò una fase completamente nuova e molto difficile: mi ritrovai a trentatré anni a dover affrontare la normalità della vita quotidiana senza nessuna esperienza. Mi sono salvato attingendo ai valori ricevuti dalla mia famiglia, che mi ha insegnato l’importanza del lavoro e il senso profondo del sacrificio che ripaga sempre in ogni ambito, sportivo e non. Dopo una breve esperienza nel cinema, iniziai a fare il commentatore e giornalista sportivo con la Rai».

Quali sono le maggiori soddisfazioni raggiunte come uomo e atleta?
«Tutto mi ha gratificato nella mia esistenza, ma soprattutto le occasioni nelle quali ho dovuto dire di no. Così facendo mi sono rafforzato continuamente, ma ho aiutato anche chi mi era intorno che tentava di condurre la mia vita e carriera».

Come resistere ai tanti condizionamenti che ci circondano?
«Dobbiamo sapere sempre con chiarezza chi siamo e cosa vogliamo: riuscire a non derogare alla nostra identità è la vittoria più bella! Ogni giorno ci troviamo a combattere per tutelare la nostra integrità: l’importante è non cedere mai, a partire dalla famiglia, passando per la scuola, il lavoro e anche la Chiesa».

Che posto occupa la fede nella tua esistenza?
«Ho sempre avuto un rapporto con Dio, che mi ha confortato e sostenuto, soprattutto nelle situazioni più difficili. Ogni volta che mi sono fatto aiutare da Dio per non cadere nei compromessi, Lui mi ha riempito di doni! Non sono un “basabanchi della chiesa” (detto popolare veneto per indicare i fedeli ipocriti - ndr) però da bambino ho ricevuto una spiritualità che mi ha permesso di scegliere la parte migliore. Ho avuto dei genitori in gamba e provo ad aiutare altri meno fortunati, soprattutto i giovani che oggi sono molto confusi».

Quanto è importante la testimonianza personale?
«Moltissimo, perché la vita espressa in pienezza e dignità diventa cultura. Abbiamo ricevuto in dono la Creazione da Dio e dobbiamo gestirla con impegno, per il nostro bene e anche per sostenere gli altri con la nostra testimonianza, attraverso l’espressione completa della nostra identità. Ho combattuto molto nella mia esistenza e spero che il mio esempio possa essere utile per gli altri. La vita è dura, ma non piangiamoci addosso. Dobbiamo tendere a migliorarci e quando sbagliamo, impariamo anche a chiedere perdono. Anch’io ho fatto molti errori, ma è necessario impegnarci per far emergere la parte migliore presente in ognuno di noi».

Ti è mai capitato di fare a pugni con Gesù?
«Sì, ma ho sperimentato che il Signore è sempre presente al mio fianco, capace di comprendermi e di aspettare il mio pentimento e la mia consapevolezza. Gesù ha saputo rinunciare alla sua esistenza per lasciarci un credo. Noi viviamo di questo, ma per metterlo in pratica dobbiamo amare gli altri; può capitare di dover sferrare qualche pugno, ma sforziamoci di non disprezzare e giudicare altre persone».

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